Il tempio era immerso nel silenzio del primo pomeriggio, rotto solo dal tono severo del maestro che rimbombava tra le pareti di legno.
Maestro: "Harai Kuko! Quante volte ti ho detto che durante la meditazione non si parla, non si ride, e soprattutto non si urla parole sconvenienti?!"
Kuko era in ginocchio davanti a lui, la testa bassa, gli occhi nascosti sotto la frangia. Non sembrava più quel ragazzo ribelle e provocatore che tutti conoscevano. In quel momento era solo... piccolo. Minuscolo. Come un bambino che aveva fatto un pasticcio troppo grande per essere ignorato.
Maestro: "Hai disonorato la disciplina del tempio!" continuò il maestro, la voce dura come pietra.
Maestro: "Non sei qui per fare il buffone!"
Kuko deglutì, ma non riusciva a parlare. Il petto gli tremava leggermente, le mani sudate strette sul kimono. Sentiva gli occhi di tutti i presenti addosso, ma soprattutto sentiva quello sguardo.
Lo sguardo di sua madre.
Hume era lì, in piedi accanto al maestro. Non urlava, non interveniva. Ma lo guardava con una serietà che lo colpiva più di ogni parola. Lui sollevò piano gli occhi verso di lei, cercando qualcosa—un sorriso, un piccolo cenno di conforto, anche solo uno sguardo morbido.
Non trovò niente. Solo la sua espressione severa, composta, delusa.
E allora, come per istinto, la sua mano si allungò leggermente verso di lei. Non per afferrarla davvero. Ma solo per sentirsi vicino. Per ricordarsi che era lì. Che c’era.
Un gesto piccolo, tremante.
La sua voce si spezzò in un sussurro appena udibile
"...Mamma…"